Luigi Ghirri, Comacchio. Argine Agosta (1989)
Una cascina di campagna si trova in mezzo alle acque di un canale vicino a Comacchio. La sua consistenza terrena e allo stesso tempo onirica è accentuata dalla sua posizione: unendo mare e cielo, sembra uscire da un quadro surrealista. Dietro l’edificio, una sottile striscia di terra rompe il colore tenue e uniforme dell’acqua e dell’aria, a sottolineare il fragile legame che tiene unita la struttura rustica alla terraferma, alla realtà, alla vita quotidiana.
Prendendo spunto da questa doppia ricerca tra paesaggio e architettura e tra natura e urbanistica, si delineano i tratti fondamentali di uno dei fotografi italiani più innovativi e sensibili degli ultimi quarant’anni. Nelle fotografie di Luigi Ghirri, ciò che viene mostrato è l’avanzamento di una storia, quella dell’Italia post boom economico, un paese che, pur avendo conosciuto uno sviluppo massiccio e un irreversibile insediamento della modernità, conserva un forte attaccamento al mondo rurale e provinciale. Ed è proprio questa avanzata del progresso che è più acuta nelle periferie, luoghi dimenticati e trascurati dalle ondate di innovazione. Questa lettura dei luoghi lontani dai grandi centri si rivela fondamentale, soprattutto come spinta verso una riscoperta della terra natale di Ghirri – l’Emilia Romagna – che tornerà prepotentemente in tutta la sua attività di fotografo.
Luigi Ghirri, Marina di Ravenna (1986)
Luigi Ghirri nasce a Fellegara di Scandiano, in provincia di Reggio Emilia. La sua personalità è stata plasmata dall’atmosfera della provincia emiliana, dal clima del Dopoguerra, dalla ripresa economica e dal fermento culturale degli anni Sessanta, elementi che hanno alimentato una personalità sensibile al cambiamento, estremamente curiosa e motivata dal desiderio di conoscenza. L’esperienza quotidiana e il legame indissolubile con i luoghi e le situazioni narrate da registi come Fellini, Antonioni o Zavattini, si arricchiscono così grazie al desiderio di approfondire e ampliare la propria visione del mondo, per compiere soprattutto con la fantasia un grande viaggio.
Ed è proprio seguendo questa sua natura di esploratore che Ghirri interpreta il proprio percorso artistico, volto a rimodellare luoghi sconosciuti e familiari, cercando di seguire le mutazioni che il paesaggio italiano ha subito negli anni. Attraverso la riscoperta dei luoghi vicini alla sua terra natale, Ghirri ne sprigiona il lato fantastico e sognante, come testimonia la collezione del 1974 intitolata “Il paese dei balocchi”.
“Qui, come nel libro di Collodi, il Paese dei Balocchi è lo spazio, o meglio gli spazi in cui la dimensione ‘quotidiana’ scompare, dove si può compiere, come nelle fiabe, un viaggio nella fantasia, nel doppio della realtà, nella variazione di scala, nella ri-costruzione, nel passato, nel paesaggio fiabesco del passato.”
Luigi Ghirri
Luigi Ghirri, Il paese dei balocchi (1974)
Un carattere innovativo negli esordi fotografici di Ghirri è l’uso della fotografia a colori, il cui utilizzo fino a quel momento era percepito come legato alla fotografia amatoriale, pubblicitaria e industriale, alimentando un’atmosfera piuttosto diffidente nei suoi confronti. Una svolta è rappresentata dal contatto con l’ambiente dell’arte concettuale: attraverso la mescolanza dei generi e la profonda influenza della pop art, Ghirri si interessa a manifesti, pubblicità e cartoline.
Se il colore rappresenta una delle varie peculiarità del lavoro del fotografo emiliano, sarà il primo a subire una riflessione concettuale; nel periodo successivo Ghirri tenderà sempre più verso una de-saturazione della tonalità. Gradualmente il colore di Ghirri si ammorbidisce, fino a che questa rarefazione diventa uno dei suoi tratti più inconfondibili. Lo si vede nella raccolta Paesaggio italiano, in cui lo sguardo del fotografo si allontana dall’immagine stereotipata delle cartoline e delle bellezze monumentali per indagare gli interstizi anonimi e marginali: i non-luoghi.
Luigi Ghirri ebbe un rapporto molto stretto con l’architettura: fu amico e assiduo collaboratore di personalità come Carlo Scarpa, Paolo Portoghesi e, soprattutto, Aldo Rossi. Il rapporto artistico tra Luigi Ghirri e Aldo Rossi viene esaminato nella sua interezza, partendo da un punto in comune tra i due artisti: il comune interesse e il fascino per il paesaggio padano. Ghirri si ispira a un preciso rapporto tra spazio e forma: ha imparato a concepire l’architettura degli edifici di Rossi attraverso la loro fusione con l’ambiente circostante. Da un lato, l’occhio del fotografo rivela qualcosa di nuovo nell’architettura, dall’altro, l’opera guida il fotografo a interrogarsi sullo spazio interpretato. Questo processo artistico è il risultato della cura, dell’attenzione a certe qualità che non sono immediatamente visibili.
Luigi Ghirri, Lido di Volano (1988)
Ghirri, inoltre, non si limita a ritrarre semplicemente un luogo. Come nei luoghi fotografati dal suo connazionale Antonioni, dove la presenza dell’uomo era dominata da un mélange di edifici tradizionali e architetture moderne, il mondo ordinario immortalato da Ghirri nasconde numerose sottotrame. Il modo in cui Ghirri esplora questo paesaggio riflette la sua stessa essenza, cioè quella di un luogo dove il tema non è mai il singolo oggetto, ma piuttosto le relazioni che si costruiscono tra qualità paesaggistiche, qualità architettoniche e qualità umane. Tuttavia, queste relazioni del paesaggio italiano rimangono latenti, in attesa che qualcuno le riporti in vita. Ghirri è stato tra i fotografi capaci di rivelare con una sincerità forte e delicata l’importanza di questo mondo sotterraneo, mostrando come il mondo delle periferie, fatto di materiali esausti e di architetture senza qualità possa aspirare a diventare il luogo, degno di riflettere una temporalità in continuo cambiamento.
Giovanni Troìa