Con sempre maggiore forza emergerà una nuova umanità, l’umanità creola. “La nostra patria fisiologica in ogni caso è la terra; la nazione non lo può più essere”: lo storico Auerbach anticipa l’idea che la nazione, un mito formato dalle varie intellighenzie, rimane in vita solo nei discorsi che la rendono immaginabile. Sulla scia dei flussi migratori e mediatici mondiali, si sviluppano continue contatti trasversali fra culture, che portano a stili di vita sempre più ibridi. Il mondo intero si creolizza, perché le culture in contatto con le altre, non possono resistere ai continui scambi e alle reciproche influenze.
La “creolità” è il connotato in cui interagiscono elementi culturali caraibici, europei, africani, asiatici, levantini. Per questo, i creoli diventano simboli di una nuova società mondiale. I versi del poeta cubano Josè Martì definiscono la vita culturale dell’uomo dei nostri tempi: “Yo vengo de todas partes y hacia todas partes voy “. Un essere che si rimodella ogni giorno a partire dall’incontro con le altre culture.
I creoli, portatori della differenza, sono il simbolo dell’evoluzione del mondo. Rappresentare l’incontro di due o più culture significa scomporre il mondo e ricomporlo in un vortice di significati dietro un’unica veste. Mondo Creolo vuole mostrare e esaltare la diversità, superando i concetti di unico e identico. Vi presentiamo alcuni dei nostri protagonisti:
Barbara Schiavulli
32 anni, giornalista freelance esperta in medio-oriente. Padre italiano e madre di Trinidad e Tobago (Genitori divorziati). Nata in Italia, visitava nell’infanzia il paese materno solo durante le vacanze natalizie. Frequenta la scuola a Monza, l’università a Venezia, dove comincia l’attività giornalistica, attualmente fra un reportage e l’altro risiede a Roma.
Il fatto che mia madre fosse caraibica, mi dava un’apertura verso l’estero. Io credo che questa sia una differenza che caratterizza tutti i figli di matrimoni misti. Durante la mia infanzia, per bocca di mia madre, dai Caraibi mi arrivavano leggende voodoo, racconti di viaggi e ritmi Calipso.
Ho vissuto la cultura e la mentalità italiana sempre filtrata da una madre che non lo è. Inoltre, aveva un passato di consapevolezza e di impegno sociale e politico.
Riflessioni Creole
Poi avevo un’impronta fisica che, anche se non marcatamente straniera, non era tipicamente italiana, soprattutto al nord. Di conseguenza c’è stata sempre la domanda: “Di dove sei?”, che ti fa sentire sempre di non appartenere completamente a un paese. Grazie al fatto di essere cresciuta a cavallo fra due culture credo di aver costruito una mentalità che non è provinciale: se sono in un posto che non mi appartiene, dopo un po’ entro in sintonia, lo sento come se fosse mio. E’ come se si attuasse una sorta d’identificazione anche con tutti gli altri, e posso capire cosa significa essere africano o provenire da altre culture.
Il mio aspetto mi permette di mescolarmi con diverse etnie del terzo mondo. Questa caratteristica è ideale perché ti mette in sintonia con più situazioni. Sono una specie di camaleonte. Se un mese fa ero a Haiti e cercavo di assorbire gli elementi della cultura haitiana, domani sarò in Iraq e dovrò cambiare mentalità. Dall’India al Sud America, passando per il medio oriente ed il Nord Africa, mi accolgono solo per il fatto di sembrare come loro o di non apparire diversa.
Un Italiano invece è quello che si veste bene. Si porta la sua cultura italiana alle spalle e che pensa e interpreta filtrando attraverso quella mentalità italiana. Io credo di non avere più una mentalità geografica: la mia concezione del mondo più allargata, mi spinge a non identificarmi con una nazione. Ho due culture alle spalle, ma alla fine, o ne ho tantissime o non né ho nessuna. Non sono né caraibica né italiana, sono qualcos’altro, quello che esce dall’unione dei due, che potrebbe definirsi nell’essere creolo. E’ un’altra dimensione.
Camillo Guilavogui
30 anni, lavoratore presso World Food Programme. Nasce a Roma, dove attualmente studia per conseguire un master in gestione di eventi. Padre africano della Guinea Conakry e madre italiana (Genitori divorziati). La madre muore quando lui ha 14 anni.
“Ho una formazione culturale tutta italiana, perché sono cresciuto con una nonna e uno zio italiani. Fino ai diciotto anni ho avuto solo amici italiani, nell’ambiente scolastico e sportivo. Alle elementari ero l’unico mulatto in classe, alle medie eravamo in due in tutta la scuola, e al liceo sono stato l’unico ragazzo nero per tre anni.
Forse la prestanza fisica e le discipline sportive mi hanno aiutato a ottenere il rispetto degli altri. Non ho mai avuto particolari problemi, al di là delle ovvie stupide battute.
Il contatto con la realtà africana
E’ un’idea d’origine dovuta più all’aspetto fisico, che all’influenza di mio padre, presente solo nella mia prima infanzia. Mio padre mi portava nelle discoteche africane, e lì capivo di essere diverso, capivo che non ero come i miei compagni di scuola… poi ritornavo in un mondo di bianchi. Al tempo stesso, avendo alle spalle una formazione prevalentemente occidentale italiana, mi sento diverso nella mentalità da molti ragazzi africani.
Se parlo con questi ragazzi, avverto che abbiamo in comune una famiglia sfasciata, magari un genitore lontano dall’altra parte del mondo. Hanno sempre dovuto convivere con le difficoltà economiche derivanti dalla situazione familiare e hanno vissuto molto la strada. Però affrontiamo la vita in modo diverso.
La differenza più tangibile e concreta con persone di cultura interamente “africana”, consiste nella vaghezza, l’approssimazione, e una dimensione temporale dilatata (ci vediamo fra mezz’ora e ne passano cinque). Ovviamente non è un difetto tipico della cultura africana, perché non è una questione di razza, ma di educazione. Anche fra gli italiani può succedere, ma negli africani si incontra in misura maggiore.
Per esempio…
…organizzo tornei di calcio dove siamo tutti ragazzi africani o misti. Il problema è che per giocare bisogna allenarsi e si deve contare sulla precisione di sedici persone. Alcuni di loro non sono in grado di garantire puntualità o presenza. Sono un organizzatore di serate Hip Hop, e ho contatti con tutte le variazioni di colore della comunità nera romana. Più questa comunità cresce, più sento di voler passare il mio tempo con gli africani, anche al di là di tutte le imprecisioni.
Preferisco stare con Handik del Madagascar, con Sashi delle Mauritius, con Sidney o con Ben piuttosto che con quattro ragazzi bianchi dall’atteggiamento lamentoso e recriminante. Con loro sento che hanno entusiasmo e che gli basta poco per essere felici. Siamo davvero diversi uno dall’altro, perché veniamo da realtà molto lontane, ma siamo tutti uguali e fratelli con lo stesso colore di pelle “
Daniele Vitrone
24 anni, ragazzo creolo brasiliano adottato da una famiglia italiana quando era un neonato. Poeta e cantante di musica rap in italiano, frequenta la facoltà di psicologia di Roma.
“Non conosco le mie origini perché in Brasile ci sono varie etnie. Non ho conosciuto i miei genitori biologici. Io abito a Roma, a Corso Francia, conosco tutti anche se nessuno saluta nessuno. Insomma non ci sono rapporti. Le persone non hanno mai fatto nulla per conoscermi e io non ho mai fatto nulla per fare amicizia. Ognuno si fa i fatti suoi.
Il legame con le mie origini si vede allo specchio. Da ragazzino ho avuto qualche problema d’identità. All’età di 8 anni chiedevo al barbiere di farmi i capelli biondi e lisci. Nella fase adolescenziale è arrivato l’odio per i biondi. Io non mi trovavo male con i miei genitori, però il mio desiderio era di somiglianza.
Identificazione dei punti di riferimento
Sono nato solo da solo ho trovato i miei punti di riferimento. Non volevo assomigliare a mio padre perché era diverso da me. E’ un uomo corpulento che fa il magistrato, a cui piace leggere e ha una mentalità pratica. Io sono uno snello a cui piace il canto e la filosofia. In un film, “Scoprendo Forrester”, ho sentito una frase verissima. “Se non hai una famiglia che ti assomiglia intorno a te, vai a cercare quella che potrebbe avere il tuo sangue”. E’ quello che feci a quattordici anni. Sono andato al Flaminio, che negli anni 90’ era il ritrovo di quasi tutti i ragazzi di colore di Roma. Le mie figure di riferimento erano i negri del Flaminio, perché facevano cose che avrei fatto io.
Per conto mio sono sempre stato una persona pacifica e non violenta, però se uno ti offende, il tuo sogno è quello di alzargli le mani. Loro lo facevano. Spesso ero preso in giro perché facevo la camminata molleggiata da nero. Non è che lo facessi di proposito. Mi veniva naturale. Lì ho incontrato chi camminava come me. Allora mi sono detto “questa è la gente che m’assomiglia”. Se sto insieme a loro, non mi prendono in giro per come cammino.
Ricerca di appartenenza
La musica è sempre stata nella mia vita, la prima volta avevo otto anni e cantavo ai miei la canzone di Venditti “Stella”, sono sempre stato un romanticone, forse per la mia natura brasiliana. Al Flaminio è nata la mia passione per il rap, la musica dei ghetti neri, mi si è aperto un mondo e ho cominciato a scrivere in rima.
Di recente mi hanno sputato a Prati, ma sono episodi sporadici. Prima sentirsi chiamare “negro” da due che sfrecciavano in motorino era all’ordine del giorno. Non è che mi facesse poi tanto male, solo mi spingeva a chiedermi “ma io di dove sono?”. Ho i documenti italiani, parlo italiano, posso trovare lavoro come chiunque altro, la società non mi fa del male, solo mi fa sentire diverso dagli altri.
La mia scoperta delle origini è partita dai vent’anni, prima rifiutavo anche solo di parlare del Brasile, poi ci sono andato. In Brasile le persone sono bellissime, ci sono delle facce incredibili, dove le origini si fondono in bellezze impressionanti. Pensavo di trovare qualcosa che mi aiutasse a definire meglio la mia identità… Il desiderio di somiglianza naturalmente non l’ho risolto ma ho trovato pace, mi sono rilassato. Io mi sento cittadino del mondo, non mi sento né italiano né brasiliano.
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